Per le serate dal vivo di storia contemporanea, talkshow di leggende, musica, sport, design e politica legate ad annate mitiche “ma anche molto meno”, io e Lara Mammi abbiamo ripercorso il 1998 al Festival Friction di Montecreto.
Per la rassegna curata da Luca Anderlini abbiamo scelto di ripercorrere le storie del predigitale legate di 25 anni fa, con il racconto di fatti noti o meno noti che – spazzo l’area da ogni effetto Anima mia – ci sorprendono restituendoci riverberi agrodolci di modernità ed attualità di certi eventi sul quale riflettere.
Tra Fatboy Slim, l’iPod e il Soldato Ryan, ho ripercorso in breve l’anno magico di Marco Pantani, condito da un episodio personale. Eccolo.
Lo sport – diceva Orwell – è una guerra senza gli spari. E trovare dentro lo sport un’impresa, un’avventura di un solo cuore nel pieno dell’inferno, non è difficile. Ma per renderla epica occorre che il protagonista, sia in un certo modo, speciale.
Non parlerò stasera del rigore sparato sulla traversa da Di Biagio che ci fece uscire da Francia 98 e nemmeno quello negato all’Inter per il famoso fallo su Ronaldo-il-Fenomeno del 26 aprile 1998 per non scatenare solchi profondi come tra Mercks e Gimondi (salutiamo i Lomas che tornano a suonare il 26 a Finale Emilia), ma vorrei dicevo percorrere il binario di quel tempo sospeso di 57 giorni che tra giugno e inizio agosto ci rende partecipi dell’avventura di un cuore triste e solitario sulle strade di Italia e Francia.
Di Marco Pantani avevo cominciato a sentire parlare nel 95 quando lavoravo per una piccola azienda di integratori alimentari, che aveva appena stretto un accordo con un ciclista di Cesenatico, un gregario del più titolato Claudio Chiappucci. Dovevamo preparare le foto e abbinarla col prodotto. Lo vedo sul giornale e non ha ancora l’immagine del calvo che sputa l’anima su un manubrio, ma piuttosto quella di un impiegato del catasto con capelli spelacchiati e un accenno di riporto.
L’impresa è di rendere aggressivo e vincente questo impiegato di Cesenatico, dicendo che se mangi le barrette energetiche diventi un campione. Facile come scalare lo Stelvio, trainando un trattore.
L’appuntamento per lo shooting fotografico è dopo la Milano-Sanremo del 95. Mi chiama il responsabile commerciale Marco Ceriani e mi dice che c’è un problema: Pantani si è rotto tibia e perone scontrandosi con un Suv che ha sciaguratamente attraversato la corsa ciclistica.
La vicenda mi ha fatto venire in mente quella del doppiatore italiano di John Belushi, Massimo Giuliani, che a proposito della vicenda disse una volta: “Quando si dice la sfiga. Una carriera stroncata dagli eccessi di un altro” (nel mio caso, quello del guidatore del Suv che ha imballato Pantani).
Il futuro Pirata ci mette un anno per riprendersi ma c’è una squadra nuova che crede in lui. Nel 97 vince due tappe al Tour de France, ma si deve ritirare dal Giro d’Italia dopo una caduta provocata da un gatto che gli attraversa la strada. Comincio a pensare che le foto a Pantani le faremo in ortopedia.
Ma nel 1998, dopo un inizio di giro un po’ in sordina, Pantani esce allo scoperto e batte tutti. Prima al Giro d’Italia e poi al Tour. Il Carpegna, il Mortirolo, Les Deux Alpes, Il Galibier, tutti traguardi che viviamo con lui, sudiamo con lui. Perché quando Pantani si alza sui pedali ti alzi anche tu dal divano.
È un petardo nel cuore, una scossa elettrica che ti fa voglia di prendere fuori la bici dal garage e metterti la bandana gialla e alzare le braccia in alto sulla sommità del cavalcavia della Crocetta. E fare il dito medio al vecchietto!
Ma mica solo a me. Quando corre Pantani gli ascolti in tv decollano, aumentano, spaccano. Ci si dice: “Ci vediamo dopo la tappa”. Perché il Pirata ti tiene lì alla sua ruota e affascina anche la luce opaca della sua tristezza. Diceva: “vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”.
Non sono mai stato un amante dell’automobilismo o del ciclismo, ma due figure come Senna e Pantani, ecco, andavano oltre lo sport che facevano. Parlavano una lingua che arrivava a tutti.
In quei 57 giorni di salite sono state dette e scritte parole bellissime su Pantani, ma più di ogni altra parola quello che ci resta oggi è la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico (del resto nessuno in questi 25 anni c’è più riuscito) qualcosa di raro e prezioso. Un ricordo da proteggere.
Pantani, per molti, è stato forse l’ultimo eroe del popolo.